di
Anna Fasano, presidente di Banca Etica
Teresa Masciopinto, presidente di Fondazione Finanza Etica
Martina Pignatti Morano, presidente del Comitato Etico di Banca Etica
Mentre scriviamo il Paese è ancora sotto shock per l’assassinio della 105esima donna in Italia dall’inizio di questo 2023 e risuona del rumore delle proteste innescate nelle piazze e nelle scuole di molte città. Un ennesimo femminicidio che ha sconvolto e – finalmente – smosso l’opinione pubblica rispetto alla piaga di un patriarcato che avvelena ancora la nostra società, inchiodando pure ragazzi e ragazze nati negli anni Duemila a modelli di relazione tossici e violenti, fondati sulla prevaricazione e sul possesso, che rovinano la vita a chi li subisce e a chi li pratica. E troppo spesso portano a conseguenze estreme, irreparabili.
Nel 1999 è stata istituita la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e sono nati i centri antiviolenza, che tuttoggi faticano però a ottenere i fondi di cui avrebbero bisogno per poter rispondere alle richieste delle cittadine in difficoltà e in pericolo. Sostenere concretamente e senza tentennamenti tali centri è un primo passo urgente da compiere. Una valutazione di più ampio respiro suggerisce però di considerare anche quale incidenza abbia sulle nuove generazioni di studenti e studentesse un sistema scolastico che, dopo anni di trasformazioni profonde, appare sempre più sintonizzato con un modello socio-economico in cui la competizione, l’individualismo, l’efficientismo sono al centro; un modello nel quale alla scuola viene attribuita la funzione di formare lavoratori piuttosto che persone, consumatori piuttosto che cittadine e cittadini. Per il superamento della violenza di genere sarebbe chiave il contributo di una scuola che recuperasse la capacità formativa sentimentale, valorizzando un corpo docente che – con senso di responsabilità – accompagni ragazze e ragazzi a scoprire e accettare sé e gli altri, i limiti e le potenzialità personali, che educhi all’autonomia, all’eguaglianza nella differenza, all’equilibrio.
Speriamo dunque che, nel nome di tutte le donne discriminate, molestate, maltrattate e uccise, le Istituzioni del Paese operino, ad ogni livello, in questa direzione. Perché non c’è più tempo da perdere.
Questo stillicidio di delitti non è infatti tollerabile, e una volta di più il movimento della finanza etica ribadisce l’urgenza di diffondere nelle comunità una nuova architettura culturale, sociale ed economica, che permetta finalmente di lasciarsi alle spalle l’attuale modello patriarcale. Un modello così strettamente intrecciato con quello capitalista e neo-liberista, e che alleva quei germi della disparità di genere che spesso si traducono nella legittimazione della sopraffazione, radicandosi da piccoli, nelle nostre case, perpetuandosi da adulti, sul luogo di lavoro.
Ciò, del resto, emerge dai dati del Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum, secondo cui occorreranno ben 131 anni perché, al ritmo attuale, si annulli la distanza tra uomini e donne in termini di diritti e parità di trattamento economico. A conferma di un profondo stato di disuguaglianza di genere che, stando a una recente ricerca britannica, può stabilirsi emblematicamente fin dalle scelte che regolano la concessione della “paghetta settimanale” nelle famiglie, incanalando dal principio maschi e femmine su strade e livelli differenti, prescindendo da ogni riflessione sull’uso responsabile del denaro, che può essere al contrario uno strumento d’inclusione, se accompagnato da pratiche e valori di equità e trasparenza.
Come soggetto finanziario portatore di una visione sociale inclusiva ben radicata, non soltanto denunciamo la necessità di intervenire contro le violenze fisiche e i delitti di genere, ma cerchiamo di lavorare al disinnesco di un’ulteriore espressione di violenza, meno tangibile e tuttavia spesso anticipatrice e generatrice di altre forme estreme: la violenza economica.
Una violenza economica che oggi, facendo presa sulla sovrastruttura culturale arretrata che citavamo, viene alimentata dai colpi della multi-crisi che stiamo vivendo (quella economica e inflazionistica, quella energetica, le incertezze sul futuro del Pianeta e gli scenari drammatici connessi alle guerre in Ucraina e in Medioriente).
Uno dei problemi, d’altra parte, è che la maggioranza delle donne vittime di violenza economica non ne è consapevole – vengono definite “invisibili” -, vivendo un rapporto di dipendenza economica e finanziaria dal partner (o altro familiare) che le porta a perdere progressivamente fiducia in se stesse e nelle proprie capacità. Ma la violenza economica si può sradicare, perché non è un concetto astratto inafferrabile: nella sua definizione internazionale, è la messa in pratica di “atti di controllo e monitoraggio del comportamento di una donna in termini di uso e distribuzione del denaro, con la costante minaccia di negare risorse economiche, o impedendole di avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale e di utilizzare le proprie risorse secondo la sua volontà” (art.3 della Convenzione di Istanbul). Sono azioni e comportamenti su cui è possibile intervenire, a partire dall’offerta alle donne della garanzia di libertà nel gestire i propri risparmi.
Un passo semplice eppure decisivo, se pensiamo che in Italia nel 2021 il 37% delle donne non era titolare di un conto corrente; e che un rapporto di Actionaid del 2017 su dati ricavati dai centri antiviolenza registrava che il 53% del campione di donne interpellate aveva subìto una qualche forma di violenza economica. Nello specifico la ricerca rivelava che:
- il 22,6% non ha accesso al reddito familiare;
- il 19,1% non può utilizzare i suoi soldi liberamente;
- il 17,6% afferma che le sue spese sono controllate dal partner;
- il 16,9% non conosce l’entità del reddito familiare
- il 10,8% non può lavorare o trovare un impiego.
La rilevazione è del 2017, certo, ma basta leggere ancora il Global Gender Gap Report per intuire che oggi non verrebbe scattata una fotografia tanto diversa della violenza economica nel nostro Paese: l’Italia si trova ad aver perso in un anno ben 16 posizioni in classifica tra le Nazioni analizzate (oggi è 79ma, assai dietro Namibia, Lituania, Ruanda…). Questo ranking sconfortante del nostro Paese, d’altra parte, come persone che credono nel potere virtuoso della finanza etica, ci impegna quotidianamente ad usare gli strumenti a nostra disposizione per sostenere innanzitutto le realtà che lavorano per affermare la libertà e la crescita collettiva contro la violenza sulle donne (e contro la violenza economica in particolare), promuovendo l’imprenditoria femminile, ad esempio, e i progetti di educazione finanziaria e trasformazione culturale positiva (Monetine).
Uomini e donne, ragazzi e ragazze, persone anziane e giovani, genitori, figlie e figli, colleghe e colleghi di lavoro devono imparare a riconoscere, denunciare e contrastare la sopraffazione e la violenza di genere. Nessuna e nessuno può chiamarsi fuori da questa responsabilità di progresso.
«Ho alzato la voce, non in modo da poter urlare, ma in modo da poter far sentire quelli senza voce… Non possiamo avere successo quando metà di noi rimane indietro».
Malala Yousafzai, attivista e blogger pakistana, vincitrice del Premio Nobel per la pace nel 2014
Foto di Duncan Shaffer su Unsplash
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