di
Anna Fasano, presidente di Banca Etica.
Editoriale pubblicato su Vita.it il 26 gennaio 2023.
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Se la condizione delle donne è riconosciuta come uno dei termometri principali dello stato di salute e di civiltà di un Paese, l’Italia ha ancora tanta strada da percorrere per risollevare la classifica stilata dal World Economic forum sulla partecipazione femminile alla vita economica, che ci vede al 104° posto su 146 Paesi vagliati, cioè parecchio dietro Malta, Brasile, Sierra Leone e Grecia. Questo mentre l’Europa sembra invece avere ben chiaro in mente quale miglioramento generale possa derivare dal coinvolgimento femminile nelle imprese: l’ultima direttiva Women on boards per l’equilibrio di genere nelle aziende quotate in Borsa, banche incluse, stabilisce che entro il 2026 le donne dovranno occupare il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi e il 33% di tutti i posti di amministratore, confermando così un’attenzione ai livelli intermedi delle organizzazioni e non solamente al riequilibrio di genere nei massimi livelli dirigenziali, aspetto più visibile, che sta nel complesso migliorando in molti campi e nelle istituzioni.
Certo, una disparità secolare, profonda e radicata non si supera in uno schiocco di dita, e il raggiungimento della parità economica, l’annullamento dell’odioso Gender Pay Gap, dovranno attendere ancora 169 anni – recentemente ce l’hanno detto persino gli spot della telefonia… -, ma le prove empiriche dimostrano che una decina di economie – soprattutto Paesi del Nord Europa – ha già colmato almeno l’80% dei propri divari di genere, mettendo così meglio a frutto il potenziale delle donne e della diversità (la sola compresenza tra donne e uomini, tra competenze, visioni e sensibilità differenti, è un fattore di crescita collettiva). Il problema è che le barriere all’ingresso e quelle interne sono ancora troppe: stando allo studio annuale Women in Business di Grant Thornton, ad esempio, nel 2022 le donne in Italia detenevano il 32% delle posizioni manageriali in azienda, contro una quota del 30% nel 2021. Per quanto riguarda le donne al vertice delle imprese, poi, la quota di quelle che occupavano la posizione di amministratore delegato (o Ceo) nel 2021 era scesa al 18%, ovvero cinque punti meno che nel 2020, a fronte del 21% di media nell’Eurozona e del 26% globale.
Questi dati testimoniano la lentezza di un cambiamento che – quando avviene – procede comunque a singhiozzo e non riguarda tutte le filiere contemporaneamente e con modalità condivise. Così – grazie a un’indagine di Dbrs Morningstar – scopriamo che il settore della finanza in Europa stacca dati migliori rispetto a quelli appena riportati, visto che nel 2022 le donne ricoprivano il 38% delle posizioni nei CdA delle banche europee (36% nel 2021, 35% nel 2020), ma nella cosiddetta “economia reale” rimangono numerose resistenze alla trasformazione: soltanto un’attività imprenditoriale su sei è guidata in Italia da una donna, e le start-up gestite interamente da donne, pur passate dal 22 al 33% nell’ultimo anno, e più resistenti nel tempo – resilienti, come si dice -, raccolgono tuttora meno finanziamenti di quelle a guida maschile. Un aspetto, quello della minor capacità di attrarre investitori, che risulta decisivo ed evidente qui da noi e si conferma in altre aree del mondo…
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