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Un sogno caldo come la lana

A cura di Corrado Fontana – giornalista di Valori.it 

Forse non tutti sanno che… – recita la famosa rubrica di «La Settimana Enigmistica» – dal sottopelo di cane, quello che tanti padroni gettano via dopo lunghe spazzolature, si ricava una lana pregiata, simile all’angora, in particolare quando proviene da esemplari di razze nordiche come siberian husky, alaskan malamute, akita inu… Una lana la cui filatura in gomitoli, richiesta dai proprietari degli animali in primis per motivi affettivi, ma anche per realizzare indumenti, sciarpe o cappelli, ha dato il via alla straordinaria avventura imprenditoriale di Giulia Alberti, del marito Alessandro Vittori e di Fattoria La Rocca a Montefortino (Fm). 

Mentre le Marche subivano la ferita del terremoto del 2016-2017, e molte persone erano costrette a fuggire per aver perso casa e lavoro, la coppia saliva dalla costa alle montagne per dare corpo ai propri sogni. Un percorso avviato quasi per gioco nel 2011 da pionieri in Italia della filatura della lana di cane per conto terzi (ora le richieste hanno mesi di lista d’attesa) a cui si sono aggiunti prima la consapevolezza dell’interesse del pubblico per la filatura, e poi il desiderio di vivere nel cuore degli splendidi Monti Sibillini. Da qui si è strutturato nel 2018 il progetto dell’azienda agropastorale, col completamento delle attività concretizzatosi in piena pandemia.

«Fattoria La Rocca – spiega Alberti – oggi comprende un piccolo stabile di legno costruito in bioedilizia dove per metà ci sono gli animali, pecore di razza sopravissana, e per metà le apparecchiature – adatte a piccole e piccolissime produzioni e prodotte da un’azienda Canadese – grazie alle quali si lavora la lana, di cane e di pecora. In più, abbiamo ristrutturato il locale dove è allestito un piccolo Museo della lana. C’è un’esposizione di attrezzi e macchinari antichi per un viaggio nella storia tra le modalità di lavorazione, fino ad arrivare a un ultimo angolo con la postazione di lavoro che ha utilizzato mio marito per tanto tempo, un arcolaio d’epoca dove mostriamo ai visitatori come si fa la filatura a mano, prima di portarli fuori a visitare l’allevamento».

Un piccolo mondo antico, insomma, e però profondamente proiettato al futuro, con un’idea di sviluppo in perfetta sintonia coi valori di Banca Etica. Come testimonia Ilaria Dottori della filiale di Ancona, che da un lato sottolinea quanto questo progetto dia «senso al nostro impegno quotidiano e ci rende orgogliosi di aver contribuito alla sua realizzazione», e dall’altro ne ricorda i “plus etici”. Fattoria La Rocca, infatti, persegue la sostenibilità ambientale con lavorazioni che non usano agenti chimici, ricicla l’acqua piovana per abbeverare gli animali e l’irrigazione, si alimenta di energia rinnovabile generata dai pannelli solari; valorizza il prodotto e l’economia locale tramite la filiera corta e tracciabile della lana ricavata dalla pecora sopravissana, razza di grande pregio ma in via di estinzione e ora recuperata grazie al nascente marchio Sibillana e ai sei allevatori locali che vi partecipano inviando alla filatura ciò che fino a ieri veniva smaltito come rifiuto; diffonde passione per i saperi della cultura pastorale attraverso il museo, e alimenta il potenziale ricettivo di un territorio bisognoso di rilancio.

Dentro Fattoria La Rocca si concentrano perciò idealità, buone prassi e traguardi imprenditoriali, cui Banca Etica ha contribuito credendo nel progetto e finanziando le costruzioni e gli impianti. «Nel corso degli ultimi cinque anni – conclude Giulia Alberti – la regione Marche ha bocciato la nostra partecipazione ad altrettanti bandi. All’ennesimo rifiuto, su suggerimento di mia madre, ci siamo rivolti alla filiale di Ancona ed è nato tutto. Banca Etica ha compreso il progetto e ci ha dato una forza enorme, sostenendo con entusiasmo questa impresa per noi importante e finanziariamente impegnativa». Un progetto prezioso per il territorio e che, appena partito, per consolidarsi chiede anche il sostegno della collettività. Tante sono infatti  le difficoltà imposte dalla pandemia di coronavirus e grave il danno economico – imprevisto – causato dal fallimento dell’azienda che era stata incaricata di costruire il fabbricato in bioedilizia.