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Chef, ma come ti vesti?

A cura di Corrado Fontana, giornalista di Valori.it

Oggi parliamo di imprenditoria femminile, di abbigliamento da lavoro per i vari settori della ristorazione ma, soprattutto, di capi che coniugano praticità, qualità artigianale e uno stile capace di distinguersi creando valore. Questo è infatti il core business di una piccola, giovane ma intraprendente impresa fiorentina che si chiama Waxmore. Fondata da madre e figlia, Maria Cristina ed Elena Fortuna, si rivolge ad una clientela convinta che – spiega la prima – «non basti più offrire solo un buon pranzo, una buona cena o un buon prodotto per diventare unici». D’altra parte, sottolinea la seconda, «Non vogliamo chef patinati che però non riescono ad entrare nella propria giacca, perché è tanto carina ma non è comoda. Partiamo da una divisa, una giacca da cucina o da sala, a cui aggiungiamo un cotone in cui il lavoratore non deve soffrire, che non crea allergia, non tiene troppo caldo, non genera pruriti. Resta la praticità della divisa ma con aspetti che aiutano la persona a lavorare meglio. Vogliamo che il capo sia giusto per chi lo indossa magari per 20 ore al giorno».

Uno dei capi di Waxmore per una gelerateria 

Il nome Waxmore unisce infatti due parole che richiamano la filosofia dell’azienda, il tessuto fantasia che si chiama Wax – derivazione olandese del batik – e il tessuto a tinta unita, il More, e nello stesso tempo (“more” significa “più” in inglese) invita a guardare anche oltre la stoffa, ovvero al made in Italy dei materiali e alle persone che cuciono sul territorio, all’attenzione per l’ambiente e l’impatto sociale… Poiché l’azienda, nata coraggiosamente come startup innovativa nell’aprile del 2020, quindi in piena pandemia di Covid-19, quando bar, ristoranti, mense e locali soffrivano per le molte restrizioni, non solo porta la moda nelle sale e nelle cucine, ma cerca di sposare diverse anime.

Lo fa, ad esempio, usando dei «fili in poliestere vegetale e solo cotoni, oppure cotone misto lino, provenienti da fabbriche che producono in Italia» per creare capi ricercati ma durevoli, resistenti all’uso e ai molti lavaggi, e recuperando comunque i ritagli per confezionare piccoli oggetti in stoffa o gadget per i propri clienti e le ong (quest’anno anche per il Natale di Emergency), contrastando così la produzione di rifiuti e gli impatti del consumo forsennato che sono propri della moda fast fashion. Ma lo fa anche ospitando gli stage e tirocini dei ragazzi dello IED di Firenze, del Polimoda e di altre scuole estere che studiano moda, comunicazione e design. Nonché attivando un progetto di formazione che si chiama Voglio fare il sarto, indirizzato a rifugiati e richiedenti asilo che erano sarti nel proprio Paese di origine: «Le aziende di moda ci comunicano le loro necessità e noi vi conformiamo il training di queste persone, al fine di coprire le carenze del mercato del lavoro nelle professionalità sartoriali». E pure i risultati commerciali non mancano, dal momento che Waxmore ha clienti in Italia – soprattutto centrale, ma non solo – e all’estero – in Belgio, Inghilterra e Usa –, perlopiù nella ristorazione di livello medio-alto, con qualche ristorante stellato.

sdr

E tutto ciò anche grazie al supporto di Banca Etica. «Ci siamo trovati di fronte una banca che ti ascolta – precisa Elena Fortuna –, che ti suggerisce, che parla chiaramente, che stabilisce un dialogo con reali interlocutori. A un “si” o a un eventuale “no” segue sempre il “perché…” e questo aiuta a crescere come azienda. Noi cerchiamo di avere con clienti e fornitori un rapporto in cui, in qualche modo, li coccoliamo, diventando quasi partner, facendo rete, collaborando con soggetti di cui ci si fida. Banca Etica è una realtà di cui ti puoi fidare». Del resto, risponde Tommaso Carli della filiale fiorentina, Waxmore «sposa molti dei nostri valori, e oltre a creare valore aggiunto per il cliente, ne crea per l’intera comunità».

Anche per questo Banca Etica sostiene la società negli investimenti in nuove tecnologie che renderanno possibile costruire il proprio capo e vederlo rappresentato tramite un avatar online, personalizzato e calato nella realtà (virtuale) del ristorante. «E ogni prodotto – conclude Elena Fortuna – avrà un codice a barre che consente al cliente di risalire alle modalità con cui è stato realizzato, in armonia con concetti di trasparenza e sostenibilità». Insomma, artigianale sì, ma 4.0.